Ma Dante aveva la barba?
di Flavia Giuliani
Laino, agosto 2021
Il titolo di questo incontro è una domanda strana che rivaluta l'aspetto comico della Commedia, mai definita "divina" dall'autore. Un'interpretazione inconsueta, divisa in tre parti, in cui si riscoprono i personaggi di Cavalcanti, Virgilio e Dante, attraverso un'esperienza di lettura diretta. Ho così cercato di rispondere alle domande che il poema mi rivolgeva: domande che avevano in sé la risposta, ma nel modo ambiguo della musica e della poesia. Questa interpretazione vede comparire nel paesaggio della Commedia, nei panni del protagonista, un essere spaventato, eteromorfo, uomo e capra al tempo stesso, disperato e pronto per una metamorfosi in essere umano razionale. Alla sua barba caprina farà poi cenno Beatrice. Nel suo viaggio salvifico egli ritroverà un cattivo amico e incontrerà un buon maestro.
Tutto è cominciato quando un giorno, mentre leggevo i primi canti dell'Inferno, ho avvertito quasi per caso una dissonanza che mi ha spinto a cercare quale potesse essere il vero significato di una parola. La parola "viltà", anzi, come è scritta nel terzo canto dell'Inferno, "viltade". Sono così incappata in un'ombra, «l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto». Di chi sta parlando Dante? Qual è la vera identità di questo personaggio? Tradizionalmente è Celestino V, ma, alla parola «viltade», ho iniziato a chiedermi: perché mai la «viltade» è attribuita a un ecclesiastico, a un papa? C'era qualcosa che non mi convinceva. Mi era tornato alla mente un particolare della corrispondenza tra Dante e Guido Cavalcanti, il «primo amico» al quale aveva già dedicato la Vita nuova. Quella corrispondenza era in realtà un sonetto scaramantico in cui Guido accusava Dante per ben tre volte di viltà, suggerendogli, con sottile ironia venata di sarcasmo, di leggere spesso il sonetto per scacciare dalla sua anima invilita lo «spirito noioso», cioè il demone che lo possedeva: I' vegno 'l giorno a te infinite volte / e trovati pensar troppo vilmente: molto mi dol de la gentil tua mente / e d'assai tue vertù che ti son tolte. [...] Se 'l presente sonetto spesso leggi / lo spirito noioso che t'incaccia / si partirà de l'anima 'nvilita. In quel contesto quella parola aveva sì un senso perché era un cavaliere che si rivolgeva a un altro accusandolo della massima colpa per il codice cavalleresco. Sarebbe stato quindi più probabile che la terzina sull'ombra anonima, la stessa che il protagonista precisa di aver «riconosciuto», si riferisse non solo a un cavaliere, ma appunto a Cavalcanti, e forse proprio per rispedire l'offesa, e l'accusa, al mittente.
Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
If III 58-60
Gianfranco Contini parlava di Cavalcanti come l'ombra e il pensiero che ha sempre accompagnato Dante, la cui presenza aleggia nel poema in modo tanto più inquietante quanto più indiretto. E Alberto Gessani, presentando il suo saggio sulla loro complicata amicizia, scrive che il rapporto tra i due grandi poeti fiorentini è difficile da comprendere «soprattutto per il carattere quasi sempre enigmatico dei riferimenti che ognuno di loro ha fatto all'opera dell'altro. Reticenza, ironie più o meno sfumate, allusioni quasi cifrate velano la polemica costante e dura che li divide [...]. La distanza riguarda proprio un tema fondamentale per la poesia e il pensiero di entrambi: la questione del carattere e dell'essenza dell'amore [...]. Non è comunque possibile per le ragioni filosofiche in questione, relegare il loro conflitto al piano puramente personale di opposti punti di vista, in quanto si tratta di due opposte strade del pensiero e della poesia nella nostra civiltà» (Dante, Guido Cavalcanti e l' "amoroso regno", Quodlibet, 2004).
Il punto di snodo tra quelle due strade si ha col poeta bolognese Guido Guinizzelli, della generazione precedente e «padre» del dolce stil novo. Per Guinizzelli l'amore terreno è il ponte verso l'assoluto ed è la via alla vera nobiltà. L'amore e il cuore nobile si attraggono come la calamita il ferro, mentre l'individuo di animo malvagio, definito «prava natura», contrasta l'amore come l'acqua contrasta il fuoco. La comunione di amore e gentilezza, sinonimo di nobiltà, è centrale nella poetica di Dante ed è alla base della polemica antiaristocratica presente nell'ultimo trattato del Convivio contro i tracotanti nobili di schiatta. È la stessa strada che il poema ha tracciato nella Commedia, la «diritta via», dopo che Dante ha integrato alla giovanile poesia d'amore la poesia politica, relativa alla giustizia. Cavalcanti analizza per contro il sentimento amoroso come inganno dei sensi, schiavitù e infine morte della ragione e trae l'etimologia di amore da morte.
Quando tra gli eretici Dante incontra il padre di Guido, gli dice che suo figlio non lo ha potuto accompagnare poiché «ebbe a disdegno» colui che consente il suo viaggio. Amore è lo stesso dio di cui Dante si dichiara «scriba», ma «cui» Guido ha opposto il suo «disdegno», già definito «il gran rifiuto». L'assenso al volere divino è anche la fedeltà alla propria vocazione, esemplificata nel poema dalle grandi imprese di Enea e Paolo, fondatori del Regno terreno e celeste. Nonostante il viaggio agl'inferi sia consentito solo agli eroi e ai santi, Virgilio sprona il discepolo a vincere la viltà e a non lasciarsi sviare, «come falso veder bestia quand'ombra», dalla via verso la gloria, la «fama» alla quale un poeta scettico non potrà mai giungere. «Fama di loro il mondo esser non lassa...» è la conclusione di un episodio iniziato con termini presi dal campo semantico del linguaggio e della poesia: "Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d'ira, voci alte e fioche...». Benché Guido sia ancora vivo nella settimana di Pasqua del 1300, cioè al tempo del viaggio immaginato nel poema, può essere già agl'inferi, con una pena simile a quella riservata agli ultimi dannati, frate Alberigo e Branca Doria, traditori degli ospiti, ancora viventi col corpo sulla terra governato da un demone, mentre il loro spirito è già precipitato nella Tolomea all'atto del tradimento. Proprio per il suo straordinario sdoppiamento tra corpo vivente e anima morta prematuramente, Dante potrà precisare a Farinata che il figlio di Cavalcante è «co' vivi ancor congiunto», come lo è frate Alberigo, che qui riprende, come egli stesso dirà in modo efficace, «dattero per figo» per il suo tradimento.
Virgilio
Dopo che Dante protagonista ha riconosciuto l'amico di un tempo nell'ombra del primo dannato, passiamo a Virgilio, la seconda parte del mosaico, la cui autorevolezza poetica e profetica, ne fa l'antagonista naturale di Cavalcanti. Dante ha scelto Virgilio come guida per ritornare alle radici della poesia e alla libertà: il buon maestro e pastore, autore delle Bucoliche e profeta cristiano che, benché pagano, avrebbe potuto salvare il protagonista dagli intrichi di una realtà tanto iniqua da essere come una favola distopica. Nella favola di Esopo, l'agnello è predestinato per legge di natura a essere divorato dal lupo e, storicamente, Dante era stato condannato all'esilio e al rogo come capro espiatorio dei conflitti tra le fazioni fiorentine fomentati da Bonifacio VIII. Quindi Virgilio, cantore della pietas e profeta della quarta egloga, poteva infondere speranza in un poeta angosciato. Virgilio è un profeta inconsapevole, già artefice della conversione di Stazio. Mi sono quindi chiesta perché Virgilio non sia destinato alla beatitudine, anche in considerazione della contrapposizione di ruoli e per simmetria logica e narratologica tra colui che non ama, statico ed escluso, e il maestro che ama e salva i discepoli senza nulla chiedere per sé, pur meritevole del premio. La sua scomparsa dal poema è talmente repentina da lasciare sconcertato il lettore, una lacuna che non può essere colmata, una somma ingratitudine a cui la provvidenza dovrebbe porre rimedio, ma è proprio la provvidenza ad essere ingrata, se si accetta la lettura vulgata.
Inoltre nella Commedia figurano già dei pagani salvi: Catone, custode del Purgatorio, Rifeo e Traiano, già salvi in Paradiso per la loro virtù, tutti collegati a vario titolo al personaggio di Virgilio. Accanto a loro nell'occhio dell'aquila c'è un personaggio anonimo, ma, come già per Celestino V, l'identificazione è dubbia. Nel Cielo di Giove, dove le anime dei giusti formano il simbolo dell'aquila imperiale, c'è questo personaggio anonimo, proprio, guarda caso, come l'ombra dell'Antinferno. Gli interpreti hanno visto nella sua descrizione il re biblico Ezechia (IV Reg. XX 1-11; Isaias XXXVIII 1-20). Ma si avverte in questa interpretazione senza prove la stessa incertezza che grava l'identificazione di Celestino V. Nell'edizione Bosco-Reggio, nell'introduzione ai canti in questione si legge:
«Si ammette generalmente un fallo di memoria di Dante; ma esso, in materia biblica, non è molto verosimile: nella preghiera a Dio, Ezechia non accenna minimamente a peccati di cui abbia a pentirsi, o di cui debba fare ammenda (...): parla al contrario dei suoi meriti. In verità, nulla, nel testo di Dante, ci costringe a identificare Ezechia nello spirito che 'indugia' la morte: potrebbe trattarsi di qualsiasi persona di qualsiasi tempo».
Se si confronta la sicurezza di Ezechia di essere esaudito per le sue buone opere all'umiltà di Virgilio, profeta cristiano e docile strumento della provvidenza, tutt'ora dolorosamente separato dalla vista di Dio, non si può non vedere la superiorità morale di chi fa il bene senza chiedere nulla in cambio; ma la vera ragione per cui questo anonimo può corrispondere a Virgilio è inscritta nelle scelte lessicali delle espressioni usate dall'aquila per tratteggiare questo personaggio senza nome. Chi ha già fiutato la verità, può trovarvi la più ampia conferma.
E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l'arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che 'l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l'odierno.
Pd XX 49-54
E il beato che segue nella circonferenza di cui ragiono, nella parte alta, ritardò la morte con una vera penitenza; ora sa che il giudizio eterno non muta, quando la preghiera di un'anima degna ritarda un evento prestabilito. La descrizione di questo beato, benché sia un capolavoro di ambiguità, si adatta a Virgilio senza alcuna forzatura. Nel poema egli incarna la Ragione e ora l'aquila parlante, presentando questo beato, usa la formula «di che ragiono», speculare alla stroncatura dei vili, «non ragioniam di lor», aggravata, si noti, dal fatto che «misericordia e giustizia li sdegna», di nuovo specularmente alla beatificazione di questo personaggio nel giudizio eterno per «degno preco», cioè la preghiera di Beatrice, sollecitata da Maria e Lucia, una triade angelica analoga alle tre donne benedette nel battesimo di Rifeo. Poi l'aquila aggiunge che questo beato è visibile «in la circunferenza [...] per l'arco superno» del suo ciglio, e proprio il Limbo è il «cerchio superno». Dal ciglio dell'Inferno, coincidente col primo cerchio, Virgilio è ora passato al luminoso presente tra i cinque che «fan cerchio per ciglio», avendo fermato la morte: «morte indugiò per vera penitenza».
Grazie alla guida di Virgilio il discepolo ha potuto infatti scampare alla minaccia rappresentata dall'allegorica lupa, tanto da poter divenire lo scriba di Amore, contrapponendosi con la composizione della Commedia alla poetica cavalcantiana dell'amore-morte in contrasto con lo stil novo: non più dolce, ma amaro, non più soave, ma aspro. Ora che il Cielo lo ha accolto nella sua gloria, Virgilio comprende che il giudizio divino non muta quando una giusta preghiera lo differisce nel tempo, ritardando un premio già deciso;la salvezza di Virgilio sotto il segno dell'aquila e della giustizia è infatti già in atto sub specie aeternitatis. Già nel Limbo la «bella scola» dei poeti è radunata intorno a Virgilio, «quel segnor de l'altissimo canto che sovra li altri com'aquila vola» (If IV 94-96) e ora le parole dell'aquila celebrano la ricomposta armonia della Poesia. È importante notare che il XX del Paradiso è simmetrico al XX dell'Inferno dove Virgilio parla dall'inizio alla fine, narrando anche la storia delle origini della sua città.
Dante
Dopo la condanna della prima ombra indegna di nome e dopo la salvezza del maestro che lo ha guidato a Beatrice, ecco la metamorfosi del protagonista, da personaggio quasi perduto in un luogo grottesco, a scriba e profeta di Amore, cioè di Beatrice, e autore della Commedia. Come si sa, il poema è un labirinto di enigmi per lo più irrisolti. Anche il protagonista e la sua identità in via di definizione sono enigmatici. Tra l'identità di Cavalcanti e di Virgilio, le due polarità opposte del valore, il traditore e il beato, scorre la metamorfosi del protagonista dallo stato naturale e potenzialmente umano, ma non ancora pienamente tale, poiché non ha ancora trovato il senno, o l'anima razionale, la ragione con cui Virgilio simbolicamente lo coronerà prima di uscire bruscamente di scena. Un individuo smarrito in una buia foresta, minacciato da una lupa e soccorso dall'ombra di Virgilio, come da un buon pastore che lo salva dai pastori-lupi rapaci che san Pietro vede dal Paradiso per tutti i pascoli. Se non sapessimo che colui che si è smarrito è un essere umano, vedendolo in una selva minacciato da una lupa e soccorso da un buon pastore potremmo credere si tratti di quell'agnello, cioè Dante stesso,che ha dormito nel bell'ovile, nemico ai lupi, e che aspira a un altro vello. La possibile rappresentazione del protagonista in una "favola" sub specie animalis trova la convalida criptica nell'Epistola a Cangrande, in cui Dante offre alcune informazioni su come leggere la Commedia relative al titolo e alla sua etimologia. Riassumendo, l'autore dell'Epistola dice che la parte iniziale del poema è simile al finale delle tragedie, orribile e fetido come il caprone nell'etimologia di tragedia, da tragos e oda, quasi "canto del capro".
Nella Commedia i riferimenti agli animali sono continui. Gli abitatori della «misera valle» dell'Arno sono definiti, «brutti porci», «botoli ringhiosi» e lupi, «che par che Circe li avesse in pastura», quasi fossero stati trasformati in bestie dalla maga Circe. La selva oscura è l'acme, in simboli, della ferinità, nel senso del motto latino, homo homini lupus, il che rende l'Inferno un bestiario. Ulisse, famoso per la mente astuta che lo eleva dalla grezza natura, è invece una fiamma parlante e inizia a narrare la propria vicenda dopo l'esperienza presso Circe: «Quando mi dipartì da Circe». Il Limbo riguarda le anime virtuose e pienamente razionali dei poeti e dei filosofi riuniti nella biblioteca universale del sapere. Virgilio pala di se come uomo: «non omo, omo già fui...». Nell'Inferno vero e proprio le pene sono, salvo dette eccezioni, fisiche e quasi tutte espresse da accenni animali. Il protagonista, invocando Miserere di me, quasi un belato, dichiara inconsapevolmente la propria identità allegorico-favolistica. La Commedia, su questo versante retorico estremamente rarefatto, potrebbe essere una mito di metamorfosi il cui protagonista è un animale antropomorfo.
Al termine del suo percorso di redenzione, nell'allusione a un particolare non umano, Beatrice sottolinea il segno visibile della colpa di Dante, un'allusione lasciata tra le righe, ma che provoca vergogna in chi la vede confermata dalla propria immagine riflessa dalle acque del Lete. Beatrice gli parla con severità. Il suo atto di accusa ha nella barba la prova evidente della colpa di Dante.
Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav'io; ed ella disse: «Quando
per udir se' dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando».
Con men di resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba,
ch'io non levai al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l'argomento.
Pg XXXI 64-75
Come un fanciullo Dante è pentito e, travolto dai rimproveri di Beatrice, non alza neppure il mento. Beatrice lo sta aspramente redarguendo con l'argomento ironico della barba. Lo rimprovera perché fino a quel momento si era comportato come una bestia, perciò allude alla sua barba caprina. Il processo fenomenologico dallo stato di natura allo sviluppo delle facoltà mentali e spirituali umane viene esemplificato in un protagonista senza nome, smarrito in una selva oscura e trasformato nell'autore del poema attraverso un processo catartico. Solo dopo la sua purificazione con la guida di Virgilio, il protagonista riceve la propria identità compiuta, segnalata dal nome col quale Beatrice lo chiama, nobilitandolo: «Dante». È l'unica volta in tutto il poema in cui il suo nome risuona.
Abbiamo quindi ipotizzato in questo breve percorso le identità di tre personaggi incogniti, il primo Cavalcanti, il poeta nichilista indegno di fama e lasciato anonimo a damnatio memoriae, poi Virgilio, uno dei beati nell'occhio dell'aquila, e l'ultimo è Dante stesso che, da animale antropomorfo nella selva, si trasformerà, trasumanando, nell'Autore del «poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra».